Il 22 maggio del 2021 a nome dell’Assurdo firmavamo il manifesto “Chiamata alle arti” per contestare le misure repressive invocate da cittadini e istituzioni locali. A un anno di distanza si fa esplicita l’incapacità politica di accogliere il contraddittorio.
Che il manifesto Chiamata alle arti abbia assunto una posizione condivisibile o meno è, e tale resterà, una questione difficilmente solubile e comunque destinata a riguardare la ristretta cerchia di chi aveva partecipato alle varie discussioni che precedettero e accompagnarono la sua stesura. Che, invece, la pubblicazione del testo e la sua esposizione in piazza non abbiano prodotto alcun risultato tangibile è evidenza: passati i primi concitatissimi giorni, sbollentati persino gli animi più caldi, il manifesto non schioccava più una sillaba. Fu strano a tutti e certamente inatteso perché si riconosceva che il testo, al di là di una intenzione provocatoria non tanto dissimulata, raccoglieva in sé una certa operatività.
Per noi, come abbiamo già scritto qui, al tramonto di quell’esperienza si accompagnò lo sconforto di percepire energie sprecate. Infatti, l’aver posto collettivamente l’attenzione – e, sia detto, criticamente controcorrente – su un tema attorno al quale si agitava la discussione pubblica aveva come obiettivo quello di costituire la base per un confronto dialettico: si chiedeva una lettura complessa dei fatti, si puntava il dito contro la faciloneria retorica e si gettavano le basi di una progettualità nella parte finale del manifesto intitolata “Che fare?”.
E invece il manifesto affondò. Come una sostanza insolubile e densa si trovò a sprofondare in acque calmissime, quindi silenziose, quindi immote. Erano acque percorse da stanchi navigatori che solcavano rotte già usitate per eccesso di cautela, già tracciate da altri, nei soliti periodi dell’anno: le saghe, le ricorrenze, la festa patronale. In questo mare più il manifesto vi sprofondava, cioè più passavano i giorni, meno delle sue parole se ne udiva il riverbero. E oggi, a un anno di distanza, quel testo che pareva possedesse una certa vitalità dirompente, forse capace – se non di tracciare nuove rotte, quantomeno di indicarne di possibili – avrà da un pezzo raggiunto il fondale buio e fangoso che accoglie, come relitti abbandonati e ormai privi di ogni funzione, altri gesti, altre parole sciupate, cioè altre “cose secche e rimorte”.
La validità delle posizioni sostenute dal manifesto potrebbe ancora trovare spazio di discussione, specie se si considera che, se nulla si è fatto, le radici dei problemi denunciati sono ancora ben salde. Più che tornare su quei temi, però, in questo articolo si vogliono tirare le conclusioni a un anno di distanza da quell’esperienza, perché un’osservazione conserva ancora in sé delle suggestioni: che all’assenza di reali occasioni dialettiche e a discussioni improntate tutte sul “secondo me…” (tali erano pressappoco le interviste ai cittadini, di tale tipo era la posizione del parroco), si sia risposto con un testo scritto e con un “secondo noi” che riuniva insieme un gruppo eterogeneo di firmatari.
Il testo del manifesto sorge in risposta a una serie di discussioni, talora anche animate, sul problema del centro storico, sollevato da alcuni cittadini e poi diffuso da più testate locali, e sulle misure di controllo invocate dai cittadini, dalla Chiesa e da parte della politica. Tale era il problema: il centro storico è deserto, non c’è economia e la sera si popola di ragazzi fuori controllo che disturbano la quiete e compiono atti vandalici; la soluzione è stabilire in piazza un presidio fisso delle forze armate per garantire quiete e sicurezza ai cittadini. La prima fase del manifesto metteva in discussione la non-soluzione cioè quella del presidio di forze armate, perché la riteneva palliativa e segno dell’incapacità politica di porre rimedi inclusivi e duraturi.
La seconda fase di vita ebbe inizio quando il manifesto venne pubblicato e si ritrovò in un clima di silenzio (e un po’ d’imbarazzo). Ci si chiedeva: c’è un problema di democrazia in questo paese? Se degli interlocutori erano stati interpellati, perché nessuno di essi si presentava dialetticamente all’appello? Perché le posizioni furono solamente dure, cioè totalmente d’accordo o totalmente in disaccordo, ma comunque sempre prive di argomentazioni profonde? In generale, perché sono mancate risposte ufficiali? Forse perché era esiguo il numero di firmatari? Ma c’era una vicinanza politica con le tematiche esposte nel manifesto? Se sì, perché non lo si ammetteva? Se no, forse bisogna affermarlo con chiarezza.
Esporsi chiaramente, questo avrebbe dovuto fare una politica sana nei confronti di una contestazione democratica. Se in piazza il giorno della pubblicazione del manifesto si aprì uno scontro col sindaco, dunque col vertice dell’istituzione politica del comune ma, comunque, rappresentante solo di una parte del consiglio comunale, occorre osservare che al di fuori di questo momento il discorso sul manifesto non ebbe altro riverbero. Infatti, sebbene idealmente la piazza è luogo pubblico per eccellenza, in verità il contesto era più che riservato, poiché al di fuori dei firmatari e qualche distratto passante, non c’era nessun altro. Sui social, invece, divenuti mezzo primario di trasmissione dei messaggi politici, non fu presa una posizione pubblica e dichiarata. Il risultato fu uno spettacolo penoso: un corpo politico dissanguato e aggredito dall’opposizione che interpretava il suo silenzio mediatico come impotenza e si scatenavano in commenti sardonici, ma dialetticamente insignificanti.
Il manifesto non poteva intendersi come un fatto trascurabile, perché fu una aperta contestazione democratica in un luogo pubblico e rappresentativo della città con firmatari facenti parte della cittadinanza e delle istituzioni. Quale fu allora il senso di quel silenzio? Strategia, spregiudicatezza o incapacità?
Quasi contemporaneamente, a Firenze si discuteva del decoro delle piazze e si rifiutava l’idea di una città-vetrina. La questione, mutatis mutandis, era simile a quella che il manifesto intendeva affrontare. L’idea che di Carini passava sommessamente nella non-soluzione proposta, se non proprio di una città-vetrina, era comunque quella di una città che tiene al mantenimento di un decoro formale dei propri spazi pubblici e che custodisce una austerità tutto sommato umile solo per mancanza di mezzi economici. È la mia personale lettura dei fatti quella di associare la difesa del decoro a un potenziale modello di sviluppo non dissimile dalla tipica perla turistica siciliana, col borgo sorridente e pullulante di bar e ristoranti; dove chi va spende, spande e porta a casa una calamita a forma di trinacria o una t-shirt del Padrino.

Non è intenzione di questo articolo stendere un elogio del Manifesto. Non era un testo perfetto, era volutamente divisivo, apriva il conflitto, poi tentava di ricucirlo con una serie di proposte operative. Rispondeva alla difesa del decoro e alle misure repressive con una propria idea di città, estendendo la riflessione ad altre sfere, come la gestione dei beni pubblici. Ciò non toglie che il suo tramortito e silenzioso tramonto abbia resa esplicita l’incapacità da parte delle istituzioni di accogliere il contraddittorio e farne uso. Si è palesata la disabitudine di tutti allo scontro dialettico, riducendo le posizioni sul piano dell’alterco di due visioni irremovibili. L’impossibilità di rapportarsi tra pari in una conversazione, con l’impossibilità di riconsiderare le proprie posizioni, restituisce una politica priva di profondità che non sa muoversi che in una realtà governata da leggi immutabili.
Il tentativo del manifesto era di costituire un’alterità: al vocio mediatico e deresponsabilizzato dei social rispondeva con un’occasione di confronto reale; all’appiattimento ideologico di certe posizioni opponeva un testo scritto; e infine, all’idea di una politica di palazzo rispondeva con le istanze dal basso, riflettendo su quella parte della popolazione che vive sulla propria pelle un cancro di cui soffrono molte città, il disagio materiale e intellettuale.
Claudio Mirabella
